mercoledì 1 novembre 2017

Miei racconti : Le idi di Marzo : la morte di Gaio Giulio Cesare

                                                             INTRO
Ho voluto giocare ad essere Giulio Cesare, a calarmi nei suoi panni durante le sue ultime ore di vita ed è nato questo "racconto" di cui posso dirmi discretamente orgogliosa.
Il racconto, naturalmente, è romanzato ma ho cercato di essere quanto più fedele possibile ai fatto storici, spero di aver creato un testo piacevole nella lettura ed emozionante.

                                                           


Era l'alba, i tiepidi raggi del sole scaldavano appena l'aria umida del mattino; la notte era stata tormentata da forti piogge ed io, sia per i rumori della natura che per i pensieri a causa dell'imminente campagna contro i Parti, per cui sarei partito tre giorni dopo, avevo dormito poco, ed il cullare di Morfeo, inoltre, era stato tormentato dall'ennesimo cattivo presagio.
Avevo sognato di volare, il che può essere interpretato come un desiderio di libertà, di superamento delle barriere umane, ma il mio volo non era piacevole, mentre viaggiavo tra le nubi, avevo un sentimento di sconfitta che mi mordeva il cuore, percepivo un'enorme tristezza nel mio animo a cui non sapevo dare spiegazione.

 Quel volo tra le nuvole, si concludeva con la vista di Giove, il padre degli Dei, che a sua volta, planando, mi veniva incontro con un largo sorriso tra la barba bianca e, poggiandomi la mano sinistra sulla spalla, con l'altra stringeva la mia, come a volermi dare il benvenuto.
Ero a letto, e fissando il soffitto ripensavo alle profezie degli auguri ed ai moniti della natura che nei giorni trascorsi mi avevano avvertito.
Circa un mese prima, furono trovati i resti di Capi, il fondatore di Capua; accanto alla sua tomba, una tavoletta di bronzo, recava scritto in lingua greca il seguente testo "Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e sarà vendicato da terribili disastri dell'Italia"; Anche l'aurispice Surinna, mentre facevo un sacrificio agli Dei, mi aveva ammonito dicendomi di fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di Marzo.
Oggi era il quindicesimo giorno del mese dedicato a Marte, il dio della guerra, ed ero convinto della sua protezione, in suo nome avevo espanso Roma, in oriente sino all'Armenia, ad occidente conquistando la Spagna, al nord sino alle terre barbare della Britannia, oltre la Manica ed al sud sottomettendo tutta l'Africa sul Mediterraneo tralasciando l'Egitto che alla guida del giovane Tolomeo XIV e Cleopatra VII era amico ed alleato del popolo romano.
Ammetto che l'Egitto era molto più che un alleato politico per me, la sua bella e giovane regina era mia moglie, l'avevo sposata con una semplice cerimonia nel suo paese e, seppure non riconosciuta da Roma per cui ero sposato con Calpurnia, l'amavo come mia unica consorte.
Dopo aver avuto dalla mia prima moglie Cornelia, la bella Giulia minore, morta di parto come sua madre, Cleopatra mi aveva finalmente dato un erede maschio, Tolomeo Cesare.
Amavo quella donna con tutto me stesso, sapeva essere una persona sorprendente; oltre al suo corpo perfetto che pareva essere preso in prestito da Venere, aveva un intelletto ed un temperamento che ricordavano la dea Minerva : era saggia, arguta, stratega ma aveva una passione ed un ardore che le invidiavo. Nonostante avessi 30 anni in più il nostro era un legame, per me, del tutto nuovo; era un rapporto alla pari e potevamo confrontarci su tutto : dalle strategie di guerra alle trame politiche, dalle scienze astronomiche alla filosofia; ma la caratteristica che più amavo in lei è che sapeva tenermi testa : con lei potevo smettere di essere Gaio Giulio Cesare, il conquistatore che tutti rispettavano e temevano, ed essere un uomo qualunque, alla mercè di una donna, dei suoi desideri e delle nostre passioni.
Mentre ero assorto dai pensieri, Calpurnia, al mio fianco, lancia un grido e si mette a sedere sul letto ansimando. Era sudata, nonostante la scarsa luce riuscivo a vedere le goccioline di sudore lucidarle la fronte e scendere senza sosta sul viso sino a lanciarsi nel vuoto.
Le metto una mano sulla spalla dicendole di calmarsi, che era solo un brutto sogno; lei mi guarda, sgrana gli occhi e mi butta le braccia al collo stringendomi forte, quasi soffocandomi, e si lascia andare in un pianto singhiozzante.
Ricambio l'abbraccio carezzandole i capelli e la invito a calmarsi e raccontarmi cosa l'aveva tanto scossa e le ricordai che il demone Incubo, spesso si diverte a stuzzicare le donne coi suoi sogni angoscianti poi, poggiandosi ai piedi del letto, ride delle sfortunate che si dimenano angosciate, per poi scappare via appagato.
Calpurnia, mi guarda, tira su col naso e mi dice, con lo sguardo fisso nel mio, di non andare al Senato.
Sorrido e sfiorandole il naso col dito le dico di stare tranquilla. Le volevo bene, ed un tempo l'avevo realmente amata, mi era stata vicina per anni, restandomi fedele nonostante le mie lunghe assenze per i campi di battaglia, ma la sua sterilità, negandoci l'arrivo di un figlio che sigillasse la nostra unione, aveva decretato la fine di quell'amore per sempre.
Si dimena, implorandomi di restare a casa, al suo fianco, ed inizia a raccontarmi la visione che aveva avuto; era a casa, seduta a terra con in grembo il mio corpo senza vita mentre all'improvviso il tetto della nostra casa inizia a cedere, cadendoci addosso.
Sorrido, accarezzandole la pallida guancia arrossata dal pianto e la stringo forte a me dicendole che se serviva a tranquillizzarla sarei rimasto a casa al suo fianco e non sarei andato alla riunione coi i Senatori.
Era l'ora terza, ero assorto nella lettura delle mappe della Partia, volevo preparami bene a questa campagna militare in quel territorio tanto aspro ed approfittando della promessa fatto a Calpurnia, volevo investire quel tempo libero pianificando esattamente ogni mossa, non potevo trascurare nulla, ogni minimo errore poteva compromettere la vittoria ed io, responsabile di tutte i soldati, volevo che nulla fosse lasciato al caso; Dopo mi ero promesso di andare dalla mia amata Cleopatra che, venuta a Roma due anni prima per assistere ai miei quattro trionfi, era ospite nella mia villa dall'altra parte del Tevere.
Mentre ero assorto nei miei studi bellici, un servitore mi annunciò l'arrivo di Decimo; entrò, era l'ora quarta, ed avvicinandosi mi dice che i senatori mi stanno aspettando. Sorrido e mettendogli una mano sulla spalla gli spiego il sogno di mia moglie.
" Dunque, il grande Cesare, generale, senatore e dittatore romano non esce di casa aspettando che sua moglie faccia sogni migliori?! dovrò dire ai senatori di elargire incensi che aiutino i dolci sogni, allora".
Questa fu la sua risposta, mi fidavo di Decimo, mi aveva affiancato nella campagna contro i Galli ed anche nella guerra civile contro i figli di Pompeo, ma quella mattina nella sua voce c'era un accenno di ilarità e timore. Non me ne accorsi subito, notai quella voce tremolante soltanto dopo, quando con la mente tornai sui fatti, ormai troppo tardi per poter porre rimedio alle conseguenze.
Incalzai, raccontandogli del mio sogno e della profezia di Surinna.
"Non puoi non recarti in Senato, oggi, si sono tutti riuniti per proclamarti re!"
Questa frase mi spiazzò, non volevo essere re, lo avevo ribadito più volte. Anche ai Lupercali, Marco Antonio, mio fido generale, mi aveva proposto la corona di re ed avevo rifiutato, facendolo annotare nei Fasti. Non volevo essere re di Roma, mi bastava aver compiuto le mie gesta ed aver portato nella mia amata città pace ed espansione, e la mia guerra contro i Parti, dove solo Alessandro Magno si era spinto, mi avrebbe consacrato nei secoli a venire, lasciando di me un'impronta indelebile.
Mi convinse, andai in camera da letto per indossare la toga e Calpurnia mi venne dietro, si inginocchiò e stringendomi i polpacci mi implorò di non andare. La presi per le braccia rimettendola in piedi e dicendole che ormai avevo deciso, questo sarebbe stato il pretesto per mettere fine, una volta per tutte, alla volontà di farmi re di Roma.
Ero pronto ed invitai Decimo ad uscire.
Il sole era già alto, era l'ora quinta e devo ammettere che ormai credevo che nulla di brutto mi potesse accadere tant'è che, quando Surinna si avvicinò alla lettiga gli disse che le idi, ormai, erano arrivate e nulla mi era accaduto, l'aurispice mi serrò il polso con la sua mano, mi guardò negli occhi con aria solenne e di sfida dicendomi "Sono arrivate, ma non sono ancora passate".
Per un attimo il sangue mi si gelò nelle vene, ma la gente del popolo si avvicinava alla lettiga per consegnarmi dei rotoli, con le loro cause da perorare, e subito la mia mente, distratta, si voltò altrove nel pensiero.
Eravamo arrivati sotto la Curia di Pompeo, in un atto di clemenza, per cui ero amato dal popolo, avevo rivalutato le statue dei nemici civili e quindi anche Pompeo era stato rimesso al suo posto dentro la Senato.
Scesi dalla lettiga, vidi Marco Antonio che si intratteneva a parlare con Decimo Bruto e lo salutai con un cenno della mano.
Prima che potessi entrare nella Curia, Artemidoro, un indovino, mi consegnò un rotolo ammonendomi di leggerlo subito, stavo per farlo, quando Cassio mi mise un braccio sotto il mio e salutandomi mi fece entrare nell'edificio.
Ero il pontefice massimo e mi accomodai al mio posto centrale salutandoli tutti, nella stanza il vociare dei Senatori rimbombava creando un eco tetro e spettrale; non mi ero mai reso conto di quanto eco ci fosse in quella stanza e mai mi resi conto di quanto spettrale e tetro possa diventare un'eco.
Credo che anch'essa, Eco, la ragazza punita da Apollo, voleva mettermi in guardia da ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, nel giorno delle idi di Marzo del 44 a.C., ma non ci badai.
Ero seduto sulla mia sedia di marmo, tutti erano raccolti attorno a me ed il loro parlottare si confondeva rendendo incomprensibile ciò che dicevano, dalla mia sinistra si avvicinò Tillio, cercai di allontanarlo con un gesto della mano ma lui mi afferrò da dietro la toga, feci in tempo a girarmi quando iniziai a sentire un lancinante dolore appena sopra la spalla, quasi vicino al collo, ansimai e girandomi vidi Casca impugnare uno stilo insanguinato.
Portai la mia mano alla ferita che subito si colorò di sangue caldo, la veste si tingeva di rosso ma i miei gesti furono rapidi, mi alzai e tentai di reagire al colpo di Casca ma un altro, in pieno petto mi raggelò, mi girai e vidi Bruto, figlio di Servilia, che mi aveva inferto il colpo. Quella ferita faceva più male all'anima che al corpo, lo guardai incredulo e riuscii a dirgli "Proprio tu, Bruto, figlio mio !".
Non riuscii a pensare altro, vidi tutti i Senatori avvicinarsi a me brandendo pugnali e stiletti, mi accasciai a terra, non pronunciai nessun suono, l'unica mia premura fu di alzare la toga sopra la testa, non volevo assistere al mio assassinio: all'assassinio dell'uomo che tanto aveva fatto per il suo popolo ed adesso veniva tradito, dell'uomo che , si era tanto fidato di loro da congedare le proprie guardie personali.
Il rotolo che mi aveva consegnato Artedmidoro mi cadde dalla mano, riversandosi al mio fianco, sporcato del mio sangue ed io morivo, con ventitré coltellate nel corpo ed altrettanto nell'anima, ai piedi della statua di Pompeo, nemico mio e di tutta Roma.

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